Poesia horror – Buio

Buio, buio, buio totale,
è in me, cammino a stenti,
il freddo, gelido, sale.

Sto fermo, non posso fare altrimenti,
il buio è in me, m’avvolge anche l’anima.
E’ freddo, è tagliente,
è come una lamina.

Sale, m’avvolge ora anche la mente
sale, sale, sale ancora
fino ad avvolgermi anche la gola.

E s’alza il lamento, lamento gridato,
fin quando anche il grido non viene smorzato.

Lo stregone e la fanciulla

Viveva nelle selve fiorentine, qualche anno fa, un uomo tacciato da tutti d’essere uno stregone, oltre che malvagio. Egli viveva sempre in solitudine in una capanna, appunto, costruita al centro d’un bosco fittissimo. Era vecchia e malandata e molti erano i ragazzi che, per gioco, azzardavano ad avvicinarsi facendo a gara a chi si spaventasse prima. Nessuno, però, osò mai avvicinarsi tanto da intravedere l’interno della casetta. Strani suoni venivano uditi nei pressi dell’abitazione del vecchio; suoni come lamenti o strane litanie cantate a bassa voce. Si dice, inoltre, che un giorno il vecchio si innamorò di una fanciulla che camminava lungo il bosco mentre, probabilmente, era in cerca di erbe o di radici, che era solito procacciare durante le prime luci dell’alba. La fanciulla, a detta degli uomini del paese, attraversava invece spesso il bosco per recarsi dalla nonna materna, che viveva in un paesino limitrofo. Molti sostengono di aver osservato più volte lo stregone poggiato ad un pino intento a mirare la bellezza della fanciulla. Le descrizioni che sono pervenute lo ritraevano come un uomo dalla lunga barba liscia e nera, come i capelli che gli cadevano lungo la schiena, e di esile corporatura. Si dice avesse sempre il volto cupo e un’ aria decisamente oscura. La fanciulla, invece, aveva dei boccoli biondi che portava raccolti sulla spalla destra, era sempre vestita di bianco e il suo profumo poteva inebriare uomini a distanza di molti metri da lei. Un giorno, il vecchio stregone avvicinò la fanciulla e le promise tutto ciò ch’ella desiderava per averla, dichiarandole d’essersi innamorato più della propria stessa vita. La fanciulla, però, oltre che a negarsi si spaventò e fuggì lungo il bosco senza neanche voltarsi. Lo stregone n’ebbe il cuore tanto addolorato da giurare di renderla eternamente bella e fresca, in modo da poterne ammirare la bellezza per il resto della sua vita. Non potendo averla, si accontentò di poterla scrutare, da dietro quel pino, come aveva sempre fatto. Si narra che fece un incantesimo, pregando gli dei che le sue richieste fossero esaudite. La fanciulla, però, sparì. Al suo posto, proprio nel punto in cui sempre passava per attraversare il bosco, nacque un nuovo albero, un pino, che svettava sugli altri per la bellezza dei legni e delle foglie. Si dice, inoltre, che lo stregone, colto da immenso dolore, ne taglio qualche ramo, ricavandone un flauto. Venne visto suonare il flauto,da quel giorno, ai piedi del pino e anche di notte, quella triste melodia, giungeva fino in paese. Lo stregone restò lì, a suonare, finché non spirò. Ancora oggi, di notte, quando il silenzio incombe sui boschi e sul paese, si può udire il suono di quel flauto, che non venne mai raccolto. E’ il canto dello stregone, condannato ad amare la fanciulla, eternamente.

Gli infermieri

Una gelida notte d’inverno presso l’ospedale Cardarelli di Napoli, tre giovani laureandi in infermieria stavano svolgendo il loro turno di notte previsto dal percorso di tirocinio che stavano affrontando presso l’università. Nessun infermiere di ruolo passò con loro la notte in quel reparto, cosa piuttosto insolita per la routine ospedaliera. Alle dieci sera effettuarono l’ultimo giro dei letti, per assicurarsi che i pazienti stessero tutti bene e che fossero pronti per addormentarsi. Nessun problema venne riscontrato. Alle dieci e venti spensero le luci e si ritirarono nello stanzino, appunto, degli infermieri. Accesero la luce e cominciarono a guardare la tv, Verso mezzanotte e tre quarti, tutti e tre erano ormai praticamente quasi dormienti quando alla porta si udì bussare tre volte. I tre si alzarono di soprassalto, sorpresi dallo strano fatto “Chi mai può essere a quest’ora? Siamo in rianimazione!”, disse uno di loro “Sarà qualcuno dagli altri reparti, forse hanno bisogno d’aiuto”, disse il secondo, mentre il terzo si affrettò ad aprire. Fuori dalla porta, però, non c’era nessuno. Non sapendosi spiegare l’accaduto, pensarono ad uno scherzo di qualche paziente un po troppo vivace, probabilmente proveniente da un altro reparto. Fecero per riaddormentarsi ma dopo una mezz’ora, un’altra volta, tre volte bussarono alla porta. Si alzarono nuovamente ed aprirono la porta, stavolta di scatto. Non trovarono però ancora nessuno, ne fuori la porta ne lungo il corridoio. Più infastiditi che spaventati, chiamarono lo stanzino del reparto accanto per segnalare di qualche paziente “troppo giocherellone” che si divertiva a bussare alla loro porta, ma dopo aver fatto un veloce giro letti gli altri infermieri confermarono che tutti stavano dormendo. I tre si guardarono basiti e il timore cominciò a divenire paura. Si rimisero sui loro giacigli per assopirsi nuovamente, ma nessuno dei tre chiuse occhio, finché, sempre mezz’ora più tardi, alla porta bussarono altre tre volte. Stavolta i tre si alzarono ed uscirono sul corridoio. Per scrupolo fecero un altra volta il giro dei letti, scoprendo che, nel frattempo, il paziente del letto tre era deceduto.

Poesia Horror – Il demone

Rumore di passi, s’avvicinano lenti,
rumore di passi, di passi pesanti.

Buio totale nella camera gelida,
l’aria che piano diventa più fetida.

Brividi corrono lungo la schiena,
sento quel ghigno, quel ghigno da iena.

Anche stanotte, di nuovo, è tornato,
tento d’urlare, di chiedere aiuto,
ma il grido non s’alza non ho neanche il fiato.

Il demone arriva, il lenzuolo è piegato,
sul bordo del letto s’è appena seduto,
Anche stanotte, di nuovo, è tornato.

Veglia su di me.

Confessioni di un Caote.

Mi sono avvicinato alla Chaos Magick da quando avevo 16 anni. Ero un accanito lettore di fumetti e aspiravo di diventare fumettista, dato che l’unica cosa che sapevo fare era disegnare molto bene. Cominciai ad appassionarmi anche al mondo delle sottoculture e dell’underground e fu così che scoprii la magia del Caos. Se non conoscete cosa sia, non documentatevi, meglio così. E’ un modo di fare magia non programmato e i suoi effetti possono essere devastanti sia sul corpo che sugli accadimenti. E’ magia nera, volta cioè all’ottenimento di effetti materiali come soldi, sesso, potere e quanto altro ancora. Il mio metodo di fare magia consistette nella creazione dei sigilli. Cosa sono i sigilli? Prendi un desiderio, scrivilo su carta e poi accosta le lettere fino a farle diventare una sorta di disegno stilizzato. Come una specie di pittogramma. Sigilli molto avanzati sono veri e propri disegni, in cui il mago canalizza tutta la sua volontà nel compierli. Cominciai subito ad operare. Il primo sigillo fu molto semplice “Voglio avere un gattino”, scrissi su un foglietto di carta, poi feci il mio disegno e andai in stato di gnosi, per lanciare il sigillo. Lo stato di gnosi è uno stato in cui il mago entra per “lanciare il sigillo” e così canalizzare tutta la sua volontà. E’ uno stato in cui il pensiero viene azzerato e nulla v’è nella mente del mago; ci sono vari metodi per raggiungere lo stato di gnosi: girare su se stessi fino a cadere in terra, usare droghe in maniera massiccia, l’iperventilazione, l’orgasmo oppure la pericolosissima posizione della morte che consiste nello stare sulla punta dei piedi, legare o tenere unite le mani della schiena e smettere di respirare fino all’esaurimento fisico. Cominciai con l’orgasmo: il metodo più semplice per spegnere totalmente la mente per alcuni secondi. Lanciai il primo sigillo, poi altri due, per sicurezza e perché ci avevo preso gusto. Attesi un paio di giorni. Al terzo giorno mi arrivò un invito su Facebook ad adottare un randagio, una telefonata da una mia amica che aveva trovato un cucciolo in giardino. Quando scesi le scale del condominio poi, nell’androne, trovai un manifestino lasciato da una signora del palazzo intenta a cedere uno dei suoi tre mici. In genere la Chaos Magick funziona dopo tre giorni, tre mesi o tre anni. Cominciai a convincermi che la cosa funzionava davvero e cominciai a fantasticare su quanti sigilli avrei potuto fare e a quanti desideri avrei potuto esprimere. La cosa bella è che non sai mai se ha funzionato o se è stata coincidenza. Ma io ci credetti. Andai avanti. Ne feci alcuni per lo studio, atri per le ragazze e alcuni parvero funzionare mentre altri no. Una notte, poi, decisi di farne uno per avere dei soldi: “Voglio un mucchio di soldi”, scrissi. E lo lanciai. Tre mesi più tardi morì mia zia, lasciandomi un bel gruzzoletto in eredità. La cosa mi turbò parecchio e cominciai a capire che la volontà si realizza sempre, ma non sai mai come. Non ho tuttavia ancora nessun rimpianto per quello che ho fatto. Un giorno, però, conobbi una ragazza e me ne innamorai subito. L’avevo conosciuta grazie a un sigillo e corrispondeva in tutto e per tutto a come l’avevo immaginata. Ci andai a letto, ma dopo si mise a piangere. Lei mi raccontò che era stata stuprata e che perciò non se la sentiva di avere una storia con me. Mi raccontò tutto dell’accaduto e io, accecato dalla rabbia, decisi di fare un sigillo per farlo morire. “Voglio che lo stupratore di Chiara muoia” decisi di scrivere. Avendo provato tutti i metodi e pensando che fosse un sigillo molto difficile da lanciare, provai la posizione della morte. Restai in quella posizione finché le mani non cominciarono a formicolare, poi le braccia e il petto fino ad arrivare al mento. Tutto il corpo sembrava andarsene, visualizzai il sigillo prima di accasciarmi a terra, esausto. Respirai a pieni polmoni per cinque minuti finchè non mi ripresi. Dopo tre giorni, però, mentre ero seduto in salone, la sensazione ricominciò di nuovo e non riuscii a farla cessare. Stavo veramente per crepare quando mi alzai dal divano e mi trascinai fino al telefono. Chiamai quella ragazza e le chiesi chi l’avesse stuprata. Avevo pensato fosse un caote anch’esso o forse un tizio già morto. Lei mi disse di non ricordare di nessuno stupro, che forse si era inventata tutto per vergogna e che non ne sapeva niente. Collegai subito i fatti. Per i sigilli, lo stupratore ero io. L’avevo forzata con la magia. “Vorrei che lo stupratore sopravviva”, scrissi su carta e penna. Affiancai le lettere alla meglio e lanciai anche quel sigillo in quello stato. Dato che stavo crepando e che non capivo più nulla, funzionò alla grande. Venni portato in ospedale e dopo tre settimane mi ripresi totalmente. Ora, però, ogni volta che vedo Chiara o anche il solo pensarla, mi provoca quella sensazione.
Per ora con la Chaos Magick ho chiuso.

Non rubare il fuoco al demone

Tempo fa viveva a Roma una ragazza di nome Milena. Aveva dei lunghi capelli neri, molto lisci, adagiati sempre sulla spalla

destra. Era una ragazza decisamente solare, i suoi occhi brillavano di una luce intensa che veniva alimentata costantemente
dalla sua fame di sapere e di conoscenza. Possedeva infatti una spiccata curiosità che nutriva frequentando un biblioteca situata
nelle vicinanze della sua villa, che aveva ereditato da una ricca zia deceduta qualche anno prima e in cui viveva completamente sola.
Nonostante fosse un “topo da biblioteca”, aveva un numeroso gruppo di amici e non disdegnava affatto la compagnia degli altri, anzi,
era sempre la più vivace e brillante, chiunque frequentasse e dovunque andasse. Era solita studiare scienze naturali e matematiche,
ma un giorno l’occhio le cadde verso una scaffalatura tutta impolverata e poco curata, che pareva quasi abbandonata o lasciata a se stessa.
Si avvicinò per sbirciare i vari titoli finché non ne trovò uno che la incuriosì decisamente. Il titolo del volume recitava “Il fuoco di Goneth”
Milena lo prese in prestito e non sembrò far caso all’espressione insospettita dell’addetto ai prestiti. Lo portò a casa con se e lo lasciò su
un mobile, nel soggiorno della villa. Lo lasciò lì e non lo lesse, avendo un mese a disposizione prima di restituirlo. Una sera, poi, tornò a casa
e si sedette sulla poltrona, dopo aver acceso il camminetto. Quando il fuoco si ravvivò, sentì un sonoro schiocco proveniente dal caminetto e il libro
cadde dal mobile. Milena, si avvicino al libro e lo raccolse. Era aperto a metà. Qualche giorno più in là, suoi amici la videro leggermente assente, cosa
strana per via della sua natura espansiva. Ancora qualche giorno passò e Milena uscì completamente fuori di sè. Cominciò ad urlare all’interno della sua villa
e ad inveire ad altissima voce. La voce, poi, non sembrava essere la sua: era gutturale e roca, quasi vomitasse gli insulti che le provenivano dalla bocca.
I vicini accorsero e chiamarono un ambulanza e Milena venne ricoverata per un Tso, ossia per un trattamento sanitario obbligatorio, che si riserva a chi esce
fuori di senno. La notte stessa, venne portata in psichiatria e al dottore che la visitò raccontò di aver “scoperto il demone” e di “averne rubato il fuoco”. “Io
so come fare, l’ho fatto, lui ora è con me, il suo potere è con me. Il Dio alato mi ha scelto.”, disse allo psichiatra. Le venne prescritta una massiccia dose di psicofarmaci
e le venne dato un letto nel reparto, ma la stessa notte, qualche ora più tardi, Milena fuggì. Intanto, casa sua, misteriosamente cominciò a bruciare. I vicini chiamarono i pompieri
ma a nulla servì il loro soccorso, la villa venne completamente distrutta dalle fiamme. Cominciarono anche le ricerche, da parte della polizia, per ritrovare Milena, che ormai era scomparsi.
Non ci fu nulla da fare e sia le forze dell’ordine che i suoi amici, dopo qualche giorno, cessarono di cercarla. QUalche settimana dopo, un contadino, trovò in un campo nelle campagne romane,
il corpo di Milena. Era incatenata ad un ceppo d’albero, col corpo completamente dilaniato e divorato dai rapaci.

Nulla si sa del libro che aveva letto…

Buio

Quella notte il ragazzo scese la vecchia scala di legno che dalla sua mansarda portava direttamente alla strada. Attorno a lui il buio più totale e un silenzio mortale. Appena sceso in strada, incontrò subito l’unica luce presente in città: proveniva fioca dalla lanterna della ragazza che lo attendeva. Si avvicinò a lei e strinse la lanterna nella sua mano. Senza guardarla e senza parlare, tirò dritto per la sua strada. Sapeva che non l’avrebbe più vista.

La strada era popolata da ombre che si muovevano flemmatiche, senza accorgersi l’una dell’altra. Ovunque si girasse, tutto era buio e tutto ciò che lo circondava aveva un’aria tetra, fredda e minacciosa. Il ragazzo continuò a camminare senza sosta, per ore, in cerca di un barlume di luce, ma la città era spenta, tutta spenta.

Dopo tanto cercare, il ragazzo si stancò e smise di camminare. Rimase immobile, al centro della strada, guardandosi attorno, in ogni direzione. Non c’era nulla per cui valesse la pena di rimanere in quel posto, ma non c’erano altri posti in cui andare oltre che quello. Si lasciò prendere dallo sconforto, sentì d’essere disperato e condannato, condannato a patire il buio, condannato a non poter più godere del calore, condannato a una vita da morto.

Fu in quel momento che, ormai rassegnato, abbassò lo sguardo a terra e vide finalmente una luce. L’aveva tenuta con se per tutto il tempo, nella mano sinistra, e se n’era dimenticato a forza di cercarla altrove.

Il mattino seguente il ragazzo si svegliò nel suo letto, come sempre. Il sole splendeva alto in cielo e illuminava ogni cosa. Scese di corsa le scale della sua mansarda, che portano direttamente alla strada. I bambini si rincorrevano felici, mentre la gente passeggiava serena, chiacchierando per le vie.

Aveva smesso di pensare a quella ragazza e non ricordava nulla dell’incubo che aveva appena vissuto, ma non aveva dimenticato di portare un po di buio con sé.

La rosa

La Rosa.

Una sera in un locale notturno di Barcellona, una coppia di giovani vide una ragazza avvicinarsi al loro tavolo. Era una venditrice di rose. A differenza degli altri venditori di rose però, Agata, questo era il suo nome, regalava una rosa ogni cinque vendute, ad un ragazzo. Questo ciò che disse alla giovane coppia. La ragazza, così, acconsentì e lasciò che essa regalò una delle sue rose al suo ragazzo. Notò con piacere che scelse una delle più fresche, ancora chiusa e poco consumata. Il ragazzo la prese e la tenne sul proprio comodino, in ricordo della serata trascorsa e del piacevole accadimento. Pian piano però, cominciò a stare male e ad avere problemi alla vista, come se gli occhi fossero perennemente appannati e spenti. Ben presto, inoltre, subentrarono altre problematiche come giramenti di testa e pressione molto bassa, finché un bel giorno svenne a lavoro. La rosa, intanto, cominciava ad appassire, insieme al ragazzo. Quando il fiore morì, anche egli si spense definitivamente. La fidanzata, andando a casa sua, si accorse della rosa appassita. Dapprima pensò d’essere uscita fuori di senno per via del lutto, poi però prese l’idea sul serio e ricollegò l’evento della rosa con l’inizio dei problemi del proprio fidanzato. Ricordava solamente la fisionomia della ragazza ed il suo nome, così cominciò a girare per i locali della città chiedendo di una venditrice di rose, di nome Agata, molto pallida e dagli occhi azzurri molto chiari, quasi sbiaditi. Le ricerche furono vane, finché una sera di pioggia, un’altra coppia le disse che quella ragazza era una sua conoscente, ma che era morta da tempo e che perciò aveva sicuramente sbagliato persona. Da quel giorno ella si convinse d’aver sbagliato a ricollegare quell’avvenimento alla morte del proprio fidanzato e demorse. Una sera, però, mentre era in un locale della città con delle compagne d’università, vide, in lontananza e di sfuggita, una coppia di ragazzi che vendeva rose, molto simile ad Agata ed al suo ragazzo.